Un calendario da dieci appuntamenti, il primo venerdì 22 novembre al “Santuccio”. Prosa, teatro contemporaneo, ma anche tanta lirica targata Varese. A poco più di una settimana dal via della stagione di Red Carpet Teatro la direttrice Serena Nardi racconta ambizioni e aspettative del prossimo futuro e sotto i riflettori finisce anche il progetto “Politeama”. In città c’è chi a criticato l’idea di portare a Varese un teatro d’opera, ma Nardi non ci sta: «Perché proporre qui iniziative quando la Scala è a sessanta chilometri? Perché la nostra ambizione è formare un pubblico giovane che a Milano non andrebbe».
Direttrice, siamo sempre più vicini alla stagione 2019/2020. Che spettacolo è “Nero (e rosa carne)”, titolo scelto per l’apertura?
«Per capirlo davvero occorre guardare al calendario completo della rassegna, la sesta realizzata da Red Carpet e Giorni Dispari. Abbiamo scelto come file rouge di questa edizione il tema dell’amore, declinato in tutte le sue prospettive. Come apertura si è scelto di fare un omaggio alla giornata contro la violenza sulle donne. “Nero (e rosa carne)”, infatti, è un insieme di tre monologhi che si concentrano su altrettante figure femminili e sulle loro esperienze drammatiche. Un messaggio che abbiamo voluto far partire sin dal titolo: il nero è il colore della violenza, della cecità; il rosa, invece, sta a simboleggiare proprio il corpo delle donne. Ragioneremo sulla Medea di Christa Wolf; su Emiliana, la ragazza uccisa a Napoli dieci anni fa e protagonista di “Lascia stare” di Chiara Spoletini; su Adèle, altra vittima di abusi ne “La ragazza sul ponte”».
Cosa pensa Varese della vostra rassegna? Che risposte vi da il vostro pubblico?
«In questi anni abbiamo sempre avuto una buona risposta alle nostre proposte. L’aspetto che interessa a tanti è la nostra ricerca di tematiche nuove, dando spazio a compagnie che arrivano da tutta Italia. Cerchiamo, insomma, di offrire una panoramica più ampia possibile sia per quanto riguarda i generi che per quanto riguarda i temi. Red Carpet in questi anni è cresciuto molto e anche la nostra stagione sperimentale è sempre stata seguita».
Parliamo della lirica. Perché vale la pena investire in questo campo?
«Guardi, noi sei anni fa abbiamo scelto di dar vita a una compagnia che fosse soprattutto orientata alla produzione. Non volevamo essere solo organizzatori di eventi e spettacoli, ma cercare di esprimere le potenzialità che Varese ha. Ci siamo messi in gioco, e continuiamo a farlo, con prodotti che partono dalla nostra città, cercando di allargare sempre più lo spettro della nostra produzione. In questo senso va letto anche il fatto di aver riportato l’opera in città: crediamo fortemente in questo progetto perché riteniamo che il nostro territorio abbia tutte le potenzialità per dar vita a un prodotto di valore».
Cosa si aspetta dal progetto del nuovo teatro? Le piace l’idea di portarlo al “Politeama”?
«Io sono convinta che Varese abbia bisogno di uno spazio adeguato per i suoi eventi artistici e spero che la nascita di un teatro nuovo possa ovviare a una serie di inconvenienti oggi presenti. L’“Apollonio”, del resto, nacque come struttura temporanea in attesa di una soluzione definitiva, eppure sono passati anni… Sul progetto “Politeama” in sé, in realtà, non conosco nulla; non so come verrà strutturato, ma mi piace pensare che diventi uno spazio il più polivalente possibile. Credo che sia necessario rispondere a tutte le esigenze possibili in città, lirica compresa. Ci si deve soffermare non solo a quello che c’è ora a Varese, ma a quello che potrebbe esserci un domani».
C’è chi obietta, però, che certe produzioni porterebbero problemi di costi. E che in fondo, se uno vuole la grande lirica, Milano è a soli sessanta chilometri…
«È vero, a Milano c’è la grande lirica. Ma c’è anche il grande teatro, con il “Piccolo” che è un’eccellenza del nostro Paese. Perché, allora, la gente dovrebbe venire qui alla stagione teatrale quando il tempio del teatro italiano è a meno di un’ora di macchina? La “Scala” è il palcoscenico più importante al mondo nel suo genere, ok. Se però si ragiona così, che senso ha che rimangano in vita gli altri teatri? L’opera è stata inventata in Italia, è un nostro patrimonio comune e non è possibile che una città non possa proporre. Personalmente credo ci sia spazio per tutti, per la “Scala” come per le le realtà provinciali, con queste ultime che hanno il diritto e il dovere di mettere alla prova le loro capacità. Le sperimentazioni, in fondo, possono portare di più. A Macerata, per esempio, da anni esiste un festival operistico che attira grande interesse, eppure sono a poca distanza da Pesaro, la patria di Rossini. Il rischio che corriamo è quello di continuare a far vivere Varese all’ombra di Milano e, personalmente, ritengo che sia una prospettiva triste».
Il pubblico la pensa come lei?
«Negli scorsi giorni parlavo con una signora che va abitualmente alla “Scala”, ma che segue per passione anche le piccole produzioni che facciamo noi. Che il pubblico ci sia è un dato di fatto. Di più: la nostra volontà è quella di formare un pubblico che a Varese manca e che è quello dei più giovani; persone che non spenderebbero 150/200 euro per andare a Milano, ma che qui trovano buona opera a prezzi ben più accessibili. Che c’è di male in questo? Le polemiche lasciano il tempo che trovano… Più si produce opera e più si coltiva il pubblico. Poi che la “Scala” non possa essere paragonata a nessun altra realtà è evidente. L’opera, però, non è solo scenografia, ma musica, cantanti, regia. È nata così, nelle piccole realtà. Tutto il resto è arrivata col tempo».