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Storia del Falò di Sant’Antonio. Come nasce la tradizione varesina

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La festa di Sant’Antonio è una delle più belle tradizioni che raccontano un pezzo di storia della città di Varese, con aneddoti, racconti e vite che ogni anno, da oltre 500 anni a questa parte, si intrecciano intorno al fuoco la sera di ogni 16 gennaio.

 

Il mito narra che Sant’Antonio sia sceso negli inferi con un maialino, creando confusione e riuscendo così a rubare il fuoco infernale. Tornando poi sulla terra, il Santo donò il fuoco agli uomini accendendo una pira: prende le mosse da qui il rito dei falò in onore del Santo, con una festa che nella tradizione contadina celebra inoltre l’arrivo della buona stagione. Inoltre, dal momento che Sant’Antonio è anche protettore degli animali domestici, un tempo i tizzoni spenti del falò e il sale benedetto durante la festa, venivano riposti nelle stalle a protezione degli animali, mentre oggi il 17 gennaio sul sagrato della chiesa alla Motta avviene la benedizione degli animali.

 

Una tradizione che è stata tramandata da generazioni a Varese e di cui si trovano documenti sin dal 1572. Un rito che si tramanda e si rinnova, passando dai ragazzi di contrada di inizio Novecento, che prendevano ogni pezzo di legno potesse capitare a tiro per gettarlo nel fuoco, ai Monelli di oggi, gruppo organizzato che realizza ogni anno un programma in cui il rito del falò è arricchito da appuntamenti che si dipanano su più giorni, con momenti solenni, punti gastronomici e iniziative di beneficenza.


Sono tante le testimonianze che permettono di ricostruire l’evoluzione del rito del falò nel corso del tempo. Come il racconto di Giovanni Antonio Adamollo, notaio e cronista varesino che nel 1619 riporta come i monelli della contrada avessero contribuito, a mani nude, a scalzare pietre dalla Motta per portarle su carretti fino a San Vittore. Circa trecento anni più tardi, il 17 gennaio1914, un cronista invece allertava:”E’ abitudine di ragazzi di andare a raccogliere tutto il legname usato che capita loro sottomano per portarlo sulla piazza ad alimentare il falò. I ragazzi (….) si danno attorno a raccattare legna; e quando, come avviene di solito, non la trovano, vanno a rubare nelle case gli attrezzi fuori uso, le scale, gli usci rotti, le sedie sgangherate, i tavoli senza gambe, e li portano al fuoco”.

 

Oltre ai numerosi furti di legna del 1913 e 1914, nel corso degli anni Trenta finirono nel fuoco una carriola apparentemente abbandonata all’angolo di via Carrobbio, con tanto di inseguimento da parte del proprietario, le imposte rubate alle finestre della stessa via, fino addirittura alla porta dell’Osteria del Popolo, in via Vetera, e molto altro.

 

E oggi come allora altri ragazzi, pronipoti di quei monelli, si fanno carico di tramandare la tradizione del falò. Con la differenza che oggi tutto avviene senza furti e in modo perfettamente organizzato, curando nel dettaglio tutte le fasi di una festa che non è più solo del quartiere bensì di tutta la città. Dalla raccolta della legna, allo stand gastronomico dove vengono cucinate le famose salamelle, alla benedizione degli animali ed al lancio dei palloncini, è tutto frutto del lavoro dei Monelli: dal più anziano, che ha più di ottant’anni, al più giovane, che ancora non ne ha dieci.

 

Esempio della pianificazione e cura che caratterizza la festa nella sua versione più contemporanea è ad esempio il fatto che il “maestro fuochista” più recente sia un giovane ingegnere, figlio di monelli, che coadiuvato da un team di ingegneri, geometri e manovali si dà da fare per costruire una pira strutturata di bancali, mobili e legname in grado di bruciare alla perfezione. Nel frattempo altri ragazzi e ragazze si occupano della cucina, preparando salamelle da metà mattina fino a notte fonda.

 

Una storia che continua, come ricorda anche uno dei monelli di oggi, Andrea Redaelli: “La passione per il falò nasce tutta in famiglia. E’ sempre stata tradizione, fin da quando avevo pochi anni, andare la sera del 16 gennaio con il nonno Ernesto, da sempre amico dei Monelli, a vedere accendere il fuoco. E crescendo, pian piano, la voglia di partecipare in maniera più attiva a questo rito si è fatta più forte, finché dieci anni fa, ho provato sulle mie spalle cosa significasse veramente essere “uno di quelli del falò”. E’ stato memorabile un fuoco alcuni anni fa, sotto la neve, dopo dieci giorni di maltempo ininterrotto. I bancali erano zuppi d’acqua e gelati. Ricordo ancora l’espressione incredula della professoressa Ambrosetti quando, un’ora prima dell’accensione, si sentiva ancora l’acqua gocciolare. “Redaelli, ce la farete ad accenderlo?” chiese. Ma il maestro fuochista aveva ben progettato la costruzione, noi ragazzi avevamo seguito le sue disposizioni, le torce avevano acceso la carta come previsto, e dunque falò fu!”.

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